Ebbene sì, ho visto Squid Game!
L’ho divorata; la prima e la seconda stagione, e non senza turbamenti.
Quando uscì anni fa, mi rifiutai di guardarla: i miei figli erano troppo piccoli e io non avevo gli strumenti per affrontare quella visione con consapevolezza. Ma si sa, le cose cambiano, e quando tuo figlio, ormai preadolescente, ti chiede insistentemente di vederla con lui – una serie che peraltro ha già guardato da solo – capisci che il tuo ruolo non è più solo di guida, ma di compagno di viaggio in un mondo che cambia troppo in fretta.
E così mi sono ritrovata davanti allo schermo, non per assecondarlo, ma per accompagnarlo e comprendere.
È finita l’era degli albi illustrati: è arrivato il momento di affrontare il gioco più duro.
Una serie che spiazza

Come sempre, vivo ogni esperienza con intensità, trasformando anche le cose più banali in spunti di riflessione. E questa serie coreana non fa eccezione. Confesso che la visione mi ha lasciata turbata, ma anche desiderosa di trovare un punto di contatto con i miei figli, che sembrano venire da un altro pianeta. La distanza tra la mia infanzia e la loro è così evidente da farmi sentire spesso disorientata.
Ricordo una scuola diversa, una città diversa, un ritmo fatto di libertà e fantasia. La televisione era un premio; una finestra limitata nel tempo da cui prendere modelli a cui ispirarsi. I cartoni animati che guardavamo, pur con le loro contraddizioni, erano carichi di senso morale, magari non condivisibile, ma era facile distinguere il bene dal male.
Il cattivo era cattivo e il buono era buono, ed era così netta la differenza che tutte le azioni del buono potevano essere accettate in quanto finalizzate a raggiungere la giustizia. Insomma a noi ci hanno fatto digerire il concetto che il fine giustifica i mezzi, ma al senso critico non ci hanno proprio allenati.
Ma con Squid Game, spettacolo di intrattenimento che ha avuto un successo mondiale acclamato da giovani e giovanissimi, si fa un passo ulteriore : nella trama non ci sono buoni né cattivi. O meglio, i cattivi sembrano divinità irraggiungibili, incarnazioni di un potere perverso che si nutre della sofferenza altrui. E i buoni? Sono persone normali, poste in situazioni estreme, costrette a sacrificare chiunque per salvare sé stesse.
Il messaggio della serie imprigiona in un loop mentale inquietante.
Il messaggio che mi arriva è chiaro: in un mondo governato dal denaro, non c’è spazio per l’umanità. La serie pone una domanda centrale: come essere buone persone in un sistema perverso? E la risposta sembra sconfortante: non si può. Per salvarsi, si deve accettare di perdere l’altro e la propria umanità.
A dire il vero, ciò che mi ha turbata nella visione di questo programma è stata non solo la crudezza con cui si passa il messaggio – non tanto dissimile a quello a cui siamo stati abituati noi- che il fine giustifica i mezzi, ma soprattutto l’annientamento totale del concetto del bene comune e della dignità umana. Il nuovo contest non parla di eroi chiamati a salvare il mondo, ma di disperati, schiacciati da una società indifferente e immodificabile, che potrebbero salvare loro stessi evitando scelte scellerate, ma che invece individuano la salvezza e la possibiltà di realizzarsi solo nel denaro.
La seconda stagione lo ribadisce: la disperazione umana porta a un degrado irreversibile. Anche il protagonista, che dovrebbe incarnare un valore morale, finisce per perdere quella veste di eroe, diventando strumento di un sistema che legittima il sacrificio umano per un senso morale sicuramente più nobile, ma che comunque non salva ed anzi, diventa esso stesso gioco dei potenti. E’ il passaggio da un messaggio utopico a uno distopico.
E allora mi chiedo: i nostri ragazzi hanno gli strumenti per affrontare tutto questo?
Un convegno che salva il pensiero

La mia ricerca di costruire una comunità e uno spazio sociale mi ha portata a partecipare a un convegno di formazione culturale. Durante l’incontro, ho scoperto la teoria di Judith Butler sulle “vite senza lutto”, un tema che mi ha aperto gli occhi su dinamiche che già sentivo come urgenti.
La riflessione sulle “vite sacrificabili” mi ha dato una chiave di lettura illuminante per interpretare Squid Game come metafora della nostra società. Viviamo in un’epoca in cui alcune vite sono considerate strumenti, scarti, o semplicemente sacrificabili, un concetto che sembra radicato e amplificato dalla nostra assuefazione al sistema.
Pensiamo ai “diversi”, a coloro che non rientrano nei dettami di un sistema disumanizzante. Il loro svantaggio, il loro sacrificio, è qualcosa che tolleriamo, purché non ci tocchi direttamente. E questo, in fondo, è il messaggio di Squid Game: siamo tutti parte di un sistema che legittima la disumanizzazione, e non possiamo considerarci innocenti, seppur non ci sentiamo colpevoli, perchè noi stessi ci percepiamo vittime.
Come reagire dunque?
Ecco il punto: non possiamo evitare di essere parte di un sistema che tende a spersonalizzare, a strumentalizzare e a sacrificare, ma possiamo scegliere come reagire. Possiamo educare noi stessi e i nostri figli a riconoscere queste dinamiche, a non accettarle passivamente e, soprattutto, a riscoprire il valore dell’interconnessione umana. Non è una battaglia facile, né breve, ma forse è l’unica che vale davvero la pena combattere e dove l’unica vittima sarebbe la disgregazione umana.
La visione di una serie come Squid Game, per quanto disturbante, diventa allora un’occasione per confrontarci con le nostre paure, con le nostre responsabilità e con il mondo che stiamo lasciando in eredità.
Ed è qui che traggo la morale più importante: nessuno si salva da solo.
In un mondo che sembra volerci dividere e ridurci a monadi isolate, l’unica via di salvezza sta nell’importanza delle alleanze, nella riscoperta di un tessuto sociale capace di resistere alla deriva dell’individualismo capitalistico. È solo restando uniti, riscoprendo il valore della comunità, che possiamo sfidare un sistema che sembra volerci disumanizzare.
Perché, alla fine, non c’è denaro o sistema che possa sopravvivere senza umanità.
E la vera speranza, quella che voglio lasciare ai miei figli, è che la scelta di restare umani sarà sempre un atto di ribellione possibile, persino nel mondo più distopico… persino in quello dove ci troveremo a insegnare l’etica all’intelligenza artificiale, che prima o poi sceglierà per noi e per chi verrà dopo di noi.
E tu, hai visto la serie? Cosa ne pensi?
Ciao, Io sono Mamma Aquilone è continuerò a far volare i miei figli soffiando i miei valori, nonostante le turbolenze della loro preadolescenza vissuta agli albori del terzo millennio.
Ci sarà da divertirsi.
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