Liberiamo la socialità.

È da un po’ che mi rimbalza nella testa il tema di questo artico: la socialità, questa sconosciuta.

L’argomento è particolarmente spinoso per chi ha scelto di intraprendere la strada dell’educazione parentale in totale autonomia, soprattutto per quelli che, come noi, hanno attraversato esperienze sia di scolarizzazione sia di comunità parentali.

Impossibile, perciò non porsi la domanda fatidica: – Ma come socializzeranno ora? – e ancora più assurdo è il non interrogarsi sulla risposta.

La lezione sulla tematica a me la stanno dando proprio i miei Gnometti, che meglio di chiunque altro mi hanno spiegato cosa significa “stare insieme”.

– Mamma, si sta con gli amici quando si è liberi; se gli adulti ti dicono quello che bisogna fare, non è più libertà; a judo faccio judo, a catechismo, a scacchi ad atletica, faccio le attività che mi dicono di imparare, non parlo con i miei amici. A scuola, anche se mi sgridavano, almeno potevo parlare quando mi mettevano fuori dalla classe, poi vabbè, il resto era un incubo -.

Ascolto il mio ometto e in lui colgo la voglia di una generazione intera che cerca di trovare una piccola zattera su cui galleggiare.

Quell’almeno per me ha un peso enorme, che la dice lunga sulla nostra deformata concezione di socialità: indurre a interpretare la punizione e l’espulsione come unico spazio di conquista di autonomia, è forse il fallimento più grande a cui dovremmo rispondere. È questa la famosa socializzazione tanto osannata? Eh già, perché mi chiedo come attraverso la politica del contenimento dentro le aule, o in contesti prestabiliti, in cattività, si possano curare i rapporti e le connessioni umane e si possa imparare a vivere; o forse è proprio questo tipo di esistenza che si vuole insegnare, chissà.

Ed ecco l’ennesima illuminazione, quella che non ti dice nulla di nuovo ma che semplicemente riaccende una parte di te, una porzione atrofizzata e dimenticata lì, da qualche parte nel tuo cuore.

Ricordo che il mio sentirmi parte del mondo, quando ero piccola, non si esaudiva nella scuola, luogo affollato da persone simili a me e come me costrette a stazionare nello stesso ambiente, ma si realizzava in quei luoghi in cui lo spazio non era solo faccenda di sito, ma piuttosto era una dimensione emotiva; il cortile sotto casa, la parrocchia, il muretto della comitiva, sono stati questi posti a darmi la possibilità di incontrare gli altri e assaporare la vita, conoscendo me stessa.

Dunque, alla luce di questa folgorazione, mi son chiesta se ancora oggi esistono luoghi in cui ai bambini/e viene concesso questo soffio di libertà.

Così mi sono vista, lì, che corro da una parte all’altra, tra sport e attività per i ragazzi, convinta che questo sia sufficiente a eliminare il senso di solitudine che un po’ si patisce, ma che è anche tremendamente comodo.

E la risposta me l’hanno data proprio loro: no, non basta; in fondo i fanciulli/e hanno bisogno di un altro tipo di spazio, che riguarda il poter scegliere dove e con chi stare; e noi glielo stiamo negando, punto.

Ovviamente non posso generalizzare, ma questa esperienza di homeschooling ci sta mostrando come la bellezza del potere vivere la città andando a cercare la cultura fuori da contesti prestabiliti, si scaglia sulla consapevolezza di essere soli. Avete mai visto bambini per strada la mattina? Vi capita di incontrare classi o scolaresche o famiglie? E se ne incontrate qualcuno, quali pensieri fate?

A noi non è mai capitato di incontrare di mattina, per le vie del quartiere o della città, liberi/e cittadini/e in età scolare. È tutto perfettamente organizzato in compartimenti stagni, privi di ulteriori alternative rispetto a quelle ufficialmente riconosciute: o a scuola, o a casa, o a fare qualche attività pomeridiana dopo i compiti.

Noi, gli homeschooler, siamo i ribelli; destiamo curiosità; ci capita di essere osservati come alieni in territorio nemico; sicuramente è una mia percezione, ma la sensazione di essere fuori luogo è sempre pronta ad assalirmi, soprattutto quando incrocio alcuni sguardi che sembrano chiedermi: – Perché i tuoi figli sono con te? Perché sono qui? Perché non sono nel luogo a loro destinato? – come se questa terra non appartenesse anche a loro…

Quando mi capita di sentire quella vocina di rimprovero, quella che ci ricorda che siamo inadeguati e per questo meritiamo di essere sbattuti fuori la classe, sorrido, la osservo e con fare beffardo me la immagino come un’arcigna strega che vuole sottrarci la felicità, il cui sortilegio ha colpito il mondo attorno a noi, ma a noi non ci piglierà di certo!

Le riflessioni che ultimamente mi capita di fare, mi hanno permesso di fugare ogni dubbio sull’ardua scelta che stiamo affrontando; probabilmente è proprio per il riconoscimento di questa nostra natura di “esseri connessi” che mi sono allontanata da percorsi educativi in cattività, che questa caratteristica la corrompono e la umiliano. Certo, l’auspicio è quello di trovare ambienti in cui alla base dei rapporti ci sia l’alleanza tra adulti a favore dei più piccoli, ma dobbiamo imparare ancora molto della nostra umanità.

Non sarà la mia generazione a cambiare le cose; stiamo perdendo molte occasioni, ma quelli un po’ pazzi come noi stanno comunque tentando di seminare nuove consapevolezze per gli adulti del futuro; magari loro saranno più creativi di noi.

Nel frattempo, ripenso a tutti coloro che mi hanno detto che sono stata sfortunata nell’esperienza scolastica di mio figlio, ma oggi, con un orgoglioso senso di liberazione, riesco finalmente a comprendere che non è stata la sfortuna a costringermi alla fuga dagli atrofizzanti muri ideologici dell’obbligo scolastico, ma è stata la consapevolezza che proprio all’interno di essi si stava compiendo una strana deformazione della meravigliosa peculiarità umana.

A ben guardare, non è la scelta di stare fuori da un’aula che determina la solitudine, ma il fatto che fuori di essa, all’esterno di queste rassicuranti gabbie, non è possibile trovare quasi nulla…

Sarà per questa sensazione di malinconia che se potessi chiedere un regalo a Babbo Natale, visto che l’anno 2021 sta giungendo al termine, domanderei di ricostruire un nuovo muretto, una piazza, un cortile per tutti/e gli/le Gnometti/e che stiamo “contenendo”, affinché anche per loro avvenga la meravigliosa esperienza del libero incontro.

Lì, a noi grandi, non resterebbe che rimanere in disparte e godere della loro arricchente libertà e, forse, riusciremmo a ritrovarci anche noi.

Nella speranza di poter restituire il mondo ai bambini e bambine, ragazzi e ragazze, auguro gioiose feste a tutti.

Mamma aquilone

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