Ad un certo punto ho smesso di cercare; mi son detta che anche la più affascinante esplorazione perde senso se da essa non riusciamo a ricavare qualche insegnamento. E cosa ho imparato fino ad ora?
Beh, ho capito che se dovessi organizzare materialmente la mia attuale esperienza genitoriale, dovrei prendere due belle scatole, una utile a custodire l’intero corredo emotivo che risulta essenziale nel rapporto con i miei figli; l’altra dovrebbe contenere tutto quello che occorre alla sopravvivenza nel variopinto rapporto tra noi adulti che collaboriamo per educare i bambini.


Non nasco come mamma homeschooler; infatti, fino ad oggi, sono andata alla ricerca di ambienti di apprendimento alternativi, in cui garantire uno spazio educativo condiviso a dimensione di bambino. Ora, dopo tanto cercare, mi rendo conto che l’aspetto che ho sottovalutato è stato quello relativo alla immane difficoltà di dare spazio, non alla dimensione afferente all’infanzia, ma al campo tipicamente adultocentrico, che ognuno di noi ha dentro.
Riunire una comunità educante, che faccia posto e lavori per offrire risorse ai fanciulli, non è cosa così impossibile; lavorare sulla alleanza alla base di essa, ad oggi mi pare una vera utopia.
Il bello è che mi rendo conto che, mentre tento questa ardua impresa, in realtà compio lo stesso identico iter che, dall’inizio dell’umanità, la specie umana prova a realizzare: unirsi per confrontarsi con una generazione diversa; con la generazione successiva alla propria. In questa missione, la consapevolezza che sembra mancare è quella che guardare le azioni delle nuove generazioni vuol dire, in realtà, guardarsi allo specchio.



Non so, ma nella mia esperienza personale, tra le diverse partecipazioni in comunità educanti ove era definita la differenza tra educatori e genitori (come se questi ultimi non lo fossero), ho potuto constatare che alle famiglie l’unica vera richiesta imposta è stata sempre quella di star fuori, o meglio, è stata quella di delegare (non di affidare, che è diverso) il processo educativo ad altri.
Insomma, sono giunta alla conclusione che a noi “grandi” mancano proprio le basi dello stare assieme per condividere progettualità e contenuti, il che rende faticosa l’idea di insegnare la socialità agli altri.
Se dovessi descrivere la mia attuale idea della condizione di noi adulti, utilizzerei le parole di una canzone di Gabbani “dittatori in testa, partigiani dentro al cuore”, è così che ci vedo: bravi ad inseguire sogni e valori altissimi, i cui contenuti sono però così interiorizzati che facciamo fatica ad accettare anche chi è simile a noi.
Mi ci ha fatto pensare il mio Gnom- ometto oggi, quando, in un discorso successivo a un’accesa litigata tra noi, ha esordito: – Mamma è facile dire quello che devono cambiare gli altri, ma quando a cambiare dobbiamo essere noi è moooolto più difficile”.
Per ascoltare un concetto simile ho dovuto frequentare corsi e master di comunicazione, per cui direi che la saggezza dimostrata dal mio ometto di 10 anni è un bel traguardo, di non facile gestione però.
Se mi sposto a riflettere sul rapporto con i miei figli infatti, percepisco forte la difficoltà ad accogliere quel loro mondo che racconta dei loro idoli e degli interessi che trovano “fuori” dalle mappe che tento di tracciare.
Mi impegno ad eliminare il giudizio e cerco di trovare qualche spazio di interesse nel loro animo, per gettare i semi dei valori in cui credo, rendendomi conto che man mano che crescono questo spazio diventa sempre più piccolo.



La verità vera è che devo ancora imparare a gestire la frustrazione del loro rifiuto ad accogliere la proposta di guardare orizzonti che raccontano del mio universo, quello che racchiude tutte le informazioni che ho individuato come fondamentali per stare in società; li vedo così tanto presi dai contenuti del loro tempo, quelli offerti proprio dalla società che dovrebbe accoglierli, quella a cui io cerco di prepararli, ma che a volte mi appare come la peggiore nemica delle famiglie e dei bambini.
Ultimamente questo è il tema predominante a cui sto indirizzando la mia ricerca e il mio esame di coscienza; se mi guardo dentro, non mi sento così accogliente e speciale, perché, anche quando i miei Gnometti introducono argomenti che proprio non appartengono alla mia rubrica, la mia capacità di ricevere “l’altro” si riduce a termini minimi, sebbene l’altro sia carne della mia carne. Questa umanità ci rende molto sociali ma molto poco socievoli.


Mi piace molto un post di Daniele Novara che racconta di come “bisogna distinguere tra regole e punizioni. Le regole sono importanti perché permettono di avere, specialmente per i figli, dei punti di riferimento chiari, di capire quello che è permesso, quello che è proibito e tutte le procedure per organizzarsi bene. Io sostengo i genitori ben organizzati perché consentono ai figli di avere una mappa chiara su cui orientarsi”.
La domanda da un milione di dollari quindi verte proprio su questo argomento: come si fa ad essere genitori ben organizzati? E poi, con chi organizzarsi per essere credibili ed efficaci?
Insomma, è deciso, la metamorfosi è completa: è arrivato il momento di continuare il viaggio in solitaria; così sarà più facile concentrarsi sulla bellezza sparsa nel mondo.
E mentre cerco di capire come riorganizzarmi al meglio, questa volta ancorandomi a me stessa, continuo la mia avventura, che di organizzato non ha nulla…noi speriamo che ce la caviamo!
Mamma aquilone



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