IL SENSO O I SENSI DEI RICORDI DI SETTEMBRE.

Settembre.

Cosa significa questo periodo oggi? Per cosa lo ricordiamo?

Da sempre, associo settembre alla fine dei giochi, al “rientro” dalle vacanze. Negli ultimi vent’anni poi questo mese ospita anche la commemorazione di una data pesante, tristissima e vergognosa; impossibile non associare il giorno 11 con un senso di dolore e terrore.

Insomma la stagionalità, quella che una volta era strettamente connessa alla produzione fruttifera dei campi, oggi diventa il tempo del “back to school”, della corsa ai libri di testo e a tutta la cancelleria utile per apprendere.

Per certi versi questo è anche il mese di “liberazione” dei genitori e dell’inizio del “calvario” per alcuni insegnati.

Ammetto che per chi ha scelto una strada “diversa” arriva un pizzico di disorientamento: è difficile individuare l’emozione esatta che procura l’azione dell’andare contro corrente.

Che sensazione ho dentro? Una sensazione di claustrofobia.

Non importa dove io sia, per me settembre ha questo sapore di angoscia e rassegnazione.

La cosa curiosa è che poi mi viene da ridere quando sfoglio alcuni libri di scuola che, mentre ti costringe a stare dentro, ti dice di osservare ciò che è fuori.

Così, alla vista di questa immagine sulle stagioni, ripenso ai mei sensi, a quanto io non possa fare a meno di loro per rimanere emozionalmente viva.

Qualche giorno fa il mio corpo è stato attraversato dalle vibrazioni di un ricordo denso di percezioni sensoriali legate alla fine delle estati di quando ero bimba.

Non comprendo il nesso, ma la mia mente mi ha riportato a quei pranzi di famiglia, al paese dei miei nonni.

Ho ricordato il profumo corposo del ragù che ci avvolgeva appena varcata la soglia di casa delle mie nonne; era un profumo saporito, perché i respiri inebriavano le papille gustative così tanto che in bocca avevi già il sapore del menù che ti attendeva.

Rammento poi la sottile eccitazione nel vedere la tavola apparecchiata “a festa”, come d’altronde eravamo noi, puliti e ordinati, coi vestiti buoni. Mi viene da sorridere se penso poi a come quella cura venisse travolta dalla golosità che ci faceva assomigliare a reduci di guerra, già alla fine della prima portata.

Il tempo veniva scandito da momenti sacri, dove il vociare delle donne, che si recavano in cucina per riassettare il tutto, era ritmato dal rumore di cocci impilati e dallo scrosciare d’acqua, mentre alla tavola, ormai spoglia, rimaneva solo lo scambio di opinioni maschili; scambio che, dopo un sorso di amaro o di limoncello, si trasformava in lunghe “pennichelle”, tipiche di quei guerrieri che ritornano dalla battaglia e che necessitano del riposo, vista l’appena vissuta cruenta esperienza.

Ricordo le giornate di fatica trascorse a preparare la salsa di pomodori, che verso fine agosto invadevano il pavimento della casa di mia nonna e la concitazione di dover compiere alcuni passaggi, perché solo quello era il tempo per preparare le scorte invernali.

Ho memoria dei rifornimenti culinari che i miei facevano ogni volta che dovevamo ritornare a Roma, dei litri di olio che sarebbero stati disponibili a Natale e di tutte le conserve che mia nonna teneva nascoste in uno sgabuzzino organizzato come un piccolo market.

Oggi mi riapproprio di questa consapevolezza contadina, confusa per troppo tempo con assenza di cultura; la realtà è che la terra è conoscenza e fatica, quella da cui tutti vogliamo scappare, rifugiandoci nella falsità della comodità di cui io sono la prima complice.

E così, quasi a volermi scagionare, vado in cerca dei riti stagionali, tipici di un tempo di cui ormai siamo privati e la cui percezione è ormai deturpata.

Mi fermo avanti ad una foto che racconta del vino versato nelle botti; foto scattata da un nostro amico che ancora è fedele alla terra e alla lavorazione dei suoi frutti.

Foto Ugo Contini Bonacossi

Mi concentro, cerco di immaginarne l’odore o il rumore, ma nulla, non ho memoria di esperienze trascorse a vendemmiare; e questa sì che è una grande lacuna, me ne accorgo solo ora.

Per cui, a chiusura di una riflessione un po’ malinconica, sorta forse in occasione del nostro “non rientro” a scuola e tipica di chi è cresciuto a ritmo della canzone “l’estate sta finendo e un anno se ne va”, faccio una solenne promessa: forse avrò tolto ai miei figli l’agitazione del primo giorno di scuola o dell’inizio dell’ultimo anno di primaria, ma giuro che a loro non dovrà mancare il ricordo di una vendemmia, della raccolta delle olive, della bellezza dell’osservare la stagionalità dei doni della terra.

Anche quest’anno, seppure lontani dal parco delle betulle, il compito sarà di lavorare con tutti i sensi e sporcarsi di terra e vita.

La sostenibilità, una vita bio e tutte le altre belle e attuali parole, che ultimamente ci inchiodano ad una inaspettata responsabilità, forse così avranno più senso.

Buona scuola, buona non scuola e felici emozioni settembrine a tutti!

Mamma aquilone

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