Quelli degli anni 90. Generazione Arancia Meccanica

Eccomi qui, a cercare di decomprimere e ad autoregolare la mia ira funesta verso il mio prossimo.

La fiducia è un bene prezioso, brillante e luminoso e forse è per questo che quando la perdi, senti di sprofondare nel buio.

Sì, a volte capita anche a me di inciampare nel più profondo scoramento quando, muovendomi dalla dimensione dell’io, cerco di “includermi” in quella del noi, ma niente proprio non si riesce, nemmeno nei contesti più promettenti…

È pur vero che devo stare più attenta a scegliere i luoghi in cui valga la pena spendere energie per la costruzione del concetto del noi, per come lo intendo io, cioè quello fatto di obiettivi comuni e comunicazione efficace, perché, ad esempio, se le energie vengono convogliate su dinamiche condominiali, beh direi che sono energie buttate alle ortiche; posso infatti affermare, con sicurezza pressoché scientifica, che il condominio è l’ambiente meno inclusivo ed edotto all’educazione civica in assoluto.

Ho problemi con il condominio si è capito? Ma non sono queste incomprensioni a turbarmi, è ben altro.

In realtà, registro una grande difficoltà a trovare una realtà autentica in cui un gruppo di adulti possa fiorire insieme, dove si possa provare la gioia della socialità costruttiva. Quindi un altro dato con valenza scientifica, che mi sento di condividere con sommaria sicurezza, è che ogni esperienza collettiva, anche la più ambiziosa, ad un certo punto, se non nutrita da alcune competenze trasversali, si trasforma in Torre di Babele e non perché siamo cattivi, ma perché non abbiamo proprio sviluppato competenza sociale, né abbiamo mai lavorato sulla individuazione di ideali realmente comuni, e forse io sono la prima!

Ci stavo pensano qualche giorno fa, mentre studiavo un po’ di storia coi miei Gnometti. Mi son chiesta quali fossero i valori o le grandi imprese di noi degli anni 90, quelli che per nonni hanno avuto persone che sono cresciute a suon di guerre mondiali e che per genitori si son beccati i ribelli sessantottini.

Ho cercato di portare la mia memoria indietro fino ai miei 18 anni, era il 1996. Non sono andata più indietro perché negli anni dell’adolescenza, quella più acerba, o ero troppo bambina, o forse troppo impegnata ad andare bene a scuola, tant’è che non ricordo di essermi aggrappata a grandi ideali sociali; dovevo studiare per il futuro, per diventare qualcuno.

Di quei lontani anni ricordo bene solo la paura di quando Emilio Fede dichiarò l’inizio della Guerra del Golfo (non ero andata a scuola e stavo a letto a fare zapping fra i canali musicali che iniziavano a essere trasmessi; Magic tv era il mio preferito), perché pensavo che mio papà sarebbe dovuto partire militare per difendere la patria (e chi lo sapeva dove stava quel Golfo!). Rammento anche gli occhi tristi dei miei quando parlavano di Falcone e Borsellino, ai quali, solo anni dopo ho dato un volto e una storia.

Insomma, Io l’adolescenza l’ho trascorsa ad innamorarmi e a scrivere poesie….detta così sembra da sfigata, ma vi assicuro che mi sono pure divertita. La vita adolescenziale dell’epoca si svolgeva in un ecosistema sociale di piazza, sviluppatosi su un muretto che cingeva un’enorme aiuola e prendeva il nome di “comitiva”. Non avevamo grandi ambizioni, se non quelle di sperimentarci come esseri viventi autonomi e capaci di intendere e volere. Forse gli unici atti da ribelli, di cui possiamo fregiarci, sono stati le occupazioni al liceo, ma a dirla tutta io occupavo la mattina ma poi a nanna me ne andavo a casa, perché non ero proprio presa dal sacro fuoco del riscatto sociale…direi di più che mi piaceva l’idea che non ci fossero le lezioni e potevo stare e fare quello che a me interessava.

Il mio debutto emotivo nella società lo attribuisco a un evento in particolare: l’omicidio di Marta Russo. Era l’anno 1997, io facevo la maturità e mi iscrivevo all’università nella stessa facoltà di quella ragazza, uccisa senza un perché, nei viali della prima università di Roma, La Sapienza. Ricordo le immagini della celebrazione dei funerali nella Cappella della città universitaria, mentre mi chiedevo come avrei affrontato quel mondo. Ricordo la paura che avevo di quell’ateneo: lì si poteva morire senza un motivo.

Probabilmente è in quel preciso momento che il brivido della responsabilità civica si è fatto sentire; con lei, forse, è stata uccisa ulteriormente la nostra dignità di studenti, quasi come se quell’evento facesse riecheggiare l’annuncio che bisognava stare comunque a testa bassa, alla totale mercé dei “grandi” della scienza della giustizia.

Non è stato facile, almeno per me, iniziare il corso di studi di legge non riuscendo ad attraversare quel corridoio all’aperto, per il terrore di chi ci fosse alle finestre, perché c’era chi, oltre al voto d’esame, poteva decidere della tua vita. C’è voluto tempo per percorrerlo, quell’angolo della città universitaria, e solo alla mia laurea sono riuscita ad andare a deporre il mio bouquet sulla targa funebre di quella ragazza e ad alzare lo sguardo per vedere da quale finestra fosse partito il proiettile. Quell’alzata di testa io l’ho percepita come la sconfitta del terrore di essere pupazzo nelle mani di altri, ma a dire la verità non è bastato neppure quell’evento per far mettere a ferro e fuoco l’università. Niente eravamo ancora tutti impegnati a dimostrare che potevamo diventare qualcuno.

Ho cominciato a pensare che a furia di cercare di diventare “qualcuno”, ci siamo persi, noi degli anni 90. Che poi, ora che ci penso 90 è paura!

Sarà stata quindi la paura che ci ha tenuti inchiodati agli schermi, con il fiato sospeso, per attendere gli effetti del Millennium Bug, mentre in realtà varcavamo il confine di un nuovo millennio e un nuovo secolo. Cioè capite? noi siamo tra quelli che hanno vissuto tra due secoli e due millenni, ma questa cosa non è abbastanza emozionante da raccontare.

E poi, che la racconto a fare l’evoluzione degli eventi che ci hanno visti come protagonisti inermi e intenti a ripercorrere i giorni della memoria e a giocare al Cluedo mediatico con i casi di Cogne, la strage di Erba, l’omicidio di Meredith, per citarne alcuni, senza minimamente scomporci se nel mondo, intanto, si aprivano le danze per una nuova forma di guerra: il terrorismo.

Nemmeno il crollo delle Torri Gemelle, gli attentati di Nassirya, di Londra, di Nizza, di Parigi, ne ho dimenticato sicuramente qualcuno, sono serviti per svegliarci, almeno un pochino, dal torpore di pensiero, perché la vera vittoria era rimanere noi stessi e continuare la nostra vita.

Nulla di quello che è capitato, mi pare, sia servito a farci dire “io voglio fare la differenza!”, perché in fondo il desiderio è sempre stato quello di diventare “qualcuno”.

Perciò, perché dannarsi o unirsi come hanno fatto i nostri nonni o i nostri genitori? Il nostro compito era beneficiare della dote che ci veniva offerta e non deludere nessuno.

 Insomma, se mi immagino nonna coi nipoti, mi vedo come una vecchina, tipo Signora Minù, che racconta degli eventi della sua epoca, dicendo che NOI, quelli degli anni 90, siamo stati quelli che hanno visto un Papa diventare Santo e uno dimettersi; siamo stati bimbi cresciuti con la paura dell’uomo nero, degli zingari che rubavano i bambini; poi siamo diventati quei ragazzi che dovevano usare il preservativo per non ammalarsi di Aids; troppo bamboccioni per poter stare al mondo, con l’ambizione di desiderare quello che avevano avuto i nostri, senza però esserne veramente degni. Siamo quelli che hanno visto nascere il Grande Fratello e che poi ci si sono magicamente trovati dentro, sempre a causa di un virus. Oh ci siamo beccati pure una pandemia, insomma di cose ne abbiam viste.

-Nonna quante cose che avete vissuto! – immagino esplodere questa esclamazione con la dolcissima voce di uno dei miei nipotini, o nipotine, che mi guarda con occhi sognanti! E io mi vedo lì, a rispondergli/le: – eh, sì! Noi degli anni 90, possiamo dire che c’eravamo; eravamo lì seduti a guardare gli eventi scorrere in tv a farci dire che cosa era male e come rimettersi in forma dopo le feste, aspettando che qualcun altro riuscisse a trovare la soluzione per tutto. Mi piace definirmi generazione Arancia Meccanica, perché forse anche noi siamo stati sottoposti inconsapevolmente alla “cura Ludovico” di quel film.

– Nonna non capisco, quindi che facevate? –

Ecco qua, la domanda fatidica: – che facevamo? Boh! – mi verrebbe da dire – probabilmente abbiamo speso il tempo a cercare di diventare quel qualcuno, perché a salvarci doveva essere qualcun altro –E chi sono qualcuno e qualcun altro nonna? –

-Non lo so, amore, non li ho mai conosciuti. Io so solo chi sono diventata io e direi che è già tanto, te lo posso assicurare! -.

Mamma aquilone, una degli anni 90.

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