Il peso specifico delle relazioni fuori la scuola…Eppur si socializza.

È sicuro che chiunque abbia solo pensato all’idea dell’educazione dei propri figli fuori da un contesto scolastico, si sia trovato a dover rispondere a queste simpatiche domande: -Sì, ma come impara? Cosa impara? E come socializza? –

Il web tra l’altro è pieno di riflessioni e dibattiti sul tema, per cui so che questo argomento potrebbe risultare indigesto o inflazionato; tenterò quindi, di non dare risposte, ma di fare domande…sperando che almeno quelle risultino nuove, o meglio divergenti (quanto mi piace sta parola!).

Ebbene, la premessa che occorre precisare è che approvo le domande e le ritengo pertinenti e utili; ciò che non capisco è la faccenda che solo gli homeschoolers debbano essere chiamati a rispondere ad esse. E gli altri? Tutti coloro che seguono la strada tradizionale, come rispondono o perché non dovrebbero farlo? E quelli che i figli non li hanno, loro che regole rispettano?

Sì perché su tali fatidiche domande sarebbe opportuno interrogarsi tutti, anche per ricercare dentro di noi il significato autentico della “nostra personale socializzazione”, cioè cosa è per noi socializzare e come lo facciamo?

Spessissimo, e questo mi terrorizza lo ammetto, sento pronunciare come un dogma e con una sicurezza schiacciante che a scuola si impara a convivere con gli altri, si impara il rispetto per le regole e per le persone, a scuola si stringono relazioni importanti.

Quindi, a me pare che per alcuni, la semplice idea di scuola, basti per evocare la garanzia di una efficace acquisizione di regole. La semplice collocazione dei bambini, in quel luogo, parrebbe produrre l’assorbimento per osmosi di condotte socialmente condivise. Eppure la realtà pare raccontare altro.

Proviamo allora a dare contenuti alle parole convivenza, rispetto altrui, relazioni; siamo proprio sicuri di poterci concedere questa rilassatezza nel riconoscere una così ampia fiducia a questa istituzione?

Iniziamo col dire che io mi sento un po’ “obiettrice di coscienza” (o forse una “pentita”) perché, ridendo e scherzando, il mio Gnom-ometto 6 anni buoni, tra materna e primaria in una scuola statale, se li è beccati; e anche io dalla materna all’università devo dire che i vari stadi della socializzazione li ho testati, per cui un pizzico di presunzione nel poter fare l’opinionista della situazione me la concedo. Me la concedete pure voi?

Quando ho cercato il significato della parola Socializzare ho trovato una definizione lunghissima, degna di un trattato. C’ho messo un po’ per fare il punto, ma poi ho trovato una sintesi efficace a cui riferirsi: socializzare = imparare a convivere con gli altri, appunto.

Facile starete pensando, beh certo!

Andando però a cercare il contenuto della parola ho trovato interessante la spiegazione che riporta al fatto che “Il bambino acquisisce valori, regole morali, credenze, atteggiamenti, abitudini che gli consentiranno di vivere in una determinata società, la quale apprezza tali regole e valori.

I sistemi di regole cambiano non solo da una società all’altra, ma – all’interno di una stessa società e dei diversi gruppi che la costituiscono – da un’epoca all’altra. Il percorso che conduce a una più o meno piena acquisizione del sistema di regole viene chiamato processo di socializzazione. Un esito positivo di questo processo consente un’efficace partecipazione alla vita sociale, ed è un requisito indispensabile perché un individuo sia accettato dagli altri membri della società.”(fonte http://www.treccani.it/enciclopedia/socializzazione_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/ )

Dopo aver letto questa autorevole definizione è iniziato il balletto di domande nel mio strambo cervello: quali sono i valori stimati dalla nostra società? E soprattutto, se il complesso di norme che una società apprezza, dipende dalla società stessa, significa che ogni luogo ha il proprio pacchetto di regole. Se siamo per strada, perciò, dovremo rispettare un determinato codice che sarà diverso da quello a cui saremo tenuti se entriamo in un luogo di culto. Se ci prepariamo per un’escursione in montagna, avremo una condotta da seguire differente rispetto a quella che se entriamo in un ufficio postale. Per non parlare delle varie culture geograficamente apprezzabili quando visitiamo paesi stranieri; com’era il detto? Ah, sì: – paese che vai usanza che trovi! -.

Insomma, sto cercando di dire, aldilà dei miei vaneggiamenti, che la mia perplessità su tali certezze deriva dalla consapevolezza che il mondo è uno scrigno enorme di saperi, un pullulare di strade percorribili.

Ebbene, se è così, come può risultare esaustivo un passaggio di valori globalmente apprezzabili, se tale trasferimento rimane chiuso in quattro mura, che mediamente sono sempre le stesse, e viene condiviso coercitivamente con le medesime persone, senza possibilità di scelta?

E poi, come è possibile imparare a socializzare senza che si acceda alle tecniche più elementari della comunicazione? Si perché imparare a parlare, a leggere e a scrivere non vuol dire apprendere l’arte della comunicazione. Io per esempio quella l’ho scoperta a trent’anni suonati.

Giorni fa, parlando con mio figlio, mi sono accorta che il giovanotto non sapeva cosa fossero le preposizioni – mamma, non le abbiamo fatte! -.

Mi paralizzo – oddio! E ora come si fa? -. Nonostante il brivido di terrore mi stesse percorrendo tra le vene, sono riuscita a vederlo: eccolo lì, il demone della scolarizzazione che è in me ha fatto subito suonare l’allarme del disastro e immediatamente la mia mente è corsa a trovare metodi per supplire a questa lacuna. Poi per fortuna sono riuscita a prendere a calci questo mostro dell’ansia e mi sono fermata ponendomi un’altra domanda: ma perché mio figlio non sente l’esigenza di scrivere una pagina di diario, una cartolina, due righe…niente. Qual è la vera faccenda, il vero spreco? Se ci mettiamo a contarle, quante preposizioni potrebbero essere inserite in una paginetta di diario, in una lettera ad un amico? Quante ce ne sono in questo delirante articolo?

Tutto sommato, quanti di noi ad un colloquio o a cena con amici hanno dovuto recitare la cantilena del  “ di a da in con su per tra fra”? A me non è capitato, ma se mai dovessi rifare un colloquio ci proverò a buttarla lì e poi vi faccio sapere se risulta efficace.

Scherzi a parte, questa estate sempre lo Gnom-ometto mi confidava, con fare serioso e un po’ malinconico, che lui non ha molti amici e che nella sua classe aveva socializzato solo con 2 compagni, su 23.

Ottimo direi, quindi il presupposto numerico è quello che fa la differenza: ho solo due amici = sono asociale. Se poi a questo elemento si aggiunge il fastidio che il mio ragazzo percepiva nel ricevere il comando – dovete essere tutti amici e dovete giocare con tutti! – e lo si miscela con la delittuosa tattica del voto: – se non prendi 10 sei fottuto – beh, allora la faccenda si fa seria.

Ah, tesoro di mamma, tu nemmeno hai idea di cosa sia l’asocialità! Quella che nasce dal profondo odio che si ha per sé stessi…

Altro esempio di socializzazione scolastica che mi ha continuamente turbata è il seguente. Mi son sempre chiesta quale messaggio subliminale possa arrivare all’inizio di una classica lezione di religione, ove i bambini che ne sono esonerati vengono invitati a fare altro o a sostare in altre classi. È possibile che alla lunga, nel cervello delle persone che subiscono questa organizzazione, sia elaborata l’idea che l’argomento “incontro delle religioni” sia tabù e sicuramente sia impossibile convivere con chi non crede, o crede altro da quello in cui crediamo noi?

Sì perché l’essere umano, a tutte le età, ha le doti per ricevere notizie e per elaborarle, se non compie questa operazione avviene che il cervello si intasa, un po’ come spiegava Michel de Montaigne circa l’utilità delle interrogazioni: “è segno di imbarazzo di stomaco e d’indigestione rigettare il cibo come lo si è inghiottito. Lo stomaco non ha compiuto la sua operazione se non ha fatto cambiare aspetto e forma a quello che gli si era dato da digerire”.

Vorrei quindi porre la domanda a sostenitori accaniti della scolarizzazione: è questa la socialità che intendete?

E poi fuori la scuola? come si socializza fuori la scuola?

Qui sono ferratissima! Noi genitori dialogavamo con il mitico gruppo whatsapp! Uno dei veri must storici del momento! Ma quanto è stato bello navigare nei pensieri ansiogeni, lanciati in libertà da un gruppo di genitori pronti a gareggiare sulle modalità del “non ho capito”, “sono preoccupatissimo/a” e “non la penso così”. Parola di ex rappresentante di classe…ora che ci penso, fa curriculum l’aver fatto la rappresentante di classe?

E quante volte la socializzazione di una classe “fuori la classe” è coltivata attraverso le tradizionali festicciole, tendenzialmente organizzate proprio con quei compagni quotidianamente incontrati a scuola, con cui si DEVE socializzare, magari rallegrati dallo stesso animatore nella stessa sala feste? Vi è capitato? A me sì.

Il messaggio che arrivava? Non c’è altro mondo all’infuori di questo…alienante!

Per farla a breve, io sono certa che a scuola si imparino alcune regole, la domanda è quali?

A volte mi fermo ad osservare la cartina planetaria che abbiamo a casa e penso che non basterebbero 10 vite per visitare tutto il mondo. Avanti a questa consapevolezza di essere piccoli piccoli, l’unica esigenza che mi prende lo stomaco è quella di far diventare elastica la mia mente per renderla abbastanza capiente.

Ed è questa duttilità che voglio trasmettere ai miei ragazzi: la capacità di comprendere la forza dell’integrazione e della diversità come opportunità di andare oltre il proprio sguardo.

Voglio concedere loro la possibilità di assaporare la soddisfazione di rispettare una regola perché la si è assimilata come utile alla propria sopravvivenza; l’imposizione, questa soddisfazione, sicuramente non la rende.

 Desidero che arrivino a conoscere ciò che li circonda attraverso la ricerca delle norme che regolano questo spazio, affinché possano farle proprie, per godere a pieno di esso.

Voglio che siano connessi, rispettosi, presenti e coscienti di quello che vivono e delle azioni che compiono, in qualunque luogo.

Come avrei fatto a trovare tutto questo tenendoli riposti in una classe, senza gite, senza confronti, dove l’unica regola da rispettare è il rispetto del “sistema classe”e basta? Me lo spiegate per favore?

Ed è per questo motivo che mi ritrovo ad essere preoccupata anche per ciò che succede fuori dalla portata della mia sfera privata, proprio perché ho a cuore la socialità dei miei ragazzi i quali si troveranno a doversi incontrare con una massa di persone a cui sarà stato raccontato che il rispetto della persona si avrà restando fermi, al proprio posto, imbavagliati, distanziati e giudicati per ciò che non riusciranno ad apprendere in queste condizioni.

La morale che traggo da questo sfogo forse è questa: trovo poco funzionale continuare a creare fazioni su chi è dentro o è fuori la scuola, su cosa sia meglio o peggio, insomma la generalizzazione è disfunzionale per la risoluzione di un problema. Dare per scontato è altrettanto inutile e pericoloso. E non credo neppure sia utile continuare a puntare il dito verso chi sente forte l’esigenza di un cambiamento sul piano educativo.

In altre parole, il problema, secondo me, non è la spinta di cercare nuove soluzioni, no; la questione seria sta nel comprendere i contenuti di coloro che vogliono che tutto rimanga come è sempre stato.

Mi rendo conto che il PH di questo post è decisamente più acido del solito, per questo concludo con una proposta: la domanda sul “come socializzano o come si socializza” facciamola a quelli che si rifugiano in quella meravigliosa zona confort mentale per cui – va bene tutto, ma almeno socializzano –; ecco, alla domanda diano loro una risposta.

Riempire la bocca di parole è facile, decisamente più complesso è colmare di contenuti la vita, darle uno spessore.

Io in qualche modo ci sto provando a dare un peso alla mia socializzazione… La vostra o quella dei vostri figli (per chi li ha), invece, quanto pesa?

Mamma aquilone… un po’ preoccupata.

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