Con la sottigliezza delle cose elevate e la sottigliezza delle carte, la matematica diventa leggera…forse.

– Mamma io odio la matematica, punto e basta! -.

Questo è stato il ritornello urlatomi contro da mio figlio, per due dei tre anni di primaria portati a termine.

Quest’anno avremmo dovuto fare la quarta, ma per chi mi segue credo sia chiaro che il percorso che abbiamo scelto avrà contorni ben più ampi di quelli di una classe e di un programma scolastico.

Ritornando alla tragedia, ciò che mi faceva male udendo quelle parole, non era tanto osservare la repulsione verso una materia, ma la resa precoce nell’affrontare un qualcosa che, sebbene inesplorato, già risultava tanto disgustoso ad un bambino che, tra i 7 e i 9 anni, dovrebbe curiosare e non odiare un argomento.

– Non fa per me, non sono capace e poi non mi serve a nulla la matematica -.

Magari fosse così! E lo dice una che a fatica ha concluso il liceo scientifico per poi laurearsi in tutt’altro; la stessa che ha sempre usato vergognosamente la calcolatrice per risolvere l’enigma del conto al ristorante (quando si poteva andare con gli amici) e pagare alla romana…bei tempi quelli!

Quindi, come far capire l’assoluta necessità di vincere l’avversione per questa materia a un convintissimo ragazzino di 9 anni? Dove trovare l’applicazione per una qualsiasi formula matematica studiata fino in terza elementare? E come evitare che la sorella cinquenne inizi a seguire il fratello in questo orrendo incubo matematico, il cui affanno è pari solo a quello patito per l’attraversamento di un girone dell’inferno dantesco?

Eureka!! La soluzione è lì, a portata di gioco!

Sapete, infatti, quanti calcoli a mente si compiono in una partita di carte a “scopa”?

E vogliamo parlare dell’introduzione alla logica delle colonne, delle righe, del verticale, orizzontale e diagonale nel gioco “forza quattro”? Ecco gli ingredienti: attenzione, logica, mossa e contromossa, strategia, attesa, rispetto delle regole e del proprio turno.

E Shanghai? Con la sua necessità di concentrazione e valutazione delle conseguenze di ogni movimento, l’ho trovato favoloso. In più ho potuto sottolineare il controllo dei movimenti e di sé, l’osservazione, la valutazione di ciò che è sopra, sotto, affianco con annessa riorganizzazione dei bastoncini conquistati per il conteggio finale.

Eh già, se gli esami li facessero così, secondo me ci sarebbero tutti fenomeni matematici, altro che ripetenti. Che poi per essere un campione a carte bisogna allenare il cervello e così anche le paginette del primo pomeriggio, quelle di quando vige la canonica ora del silenzio, tipica nei campeggi, sono diventate utili allo scopo del ripasso/allenamento. Et voilà, il libro dei compiti si trasforma magicamente in libro allenamento, forte no?

Voglio quindi palesare la soddisfazione che è arrivata alle stelle quando abbiamo condiviso tutti la stessa valida motivazione di usare l’odiata materia per ottenere il punteggio dei giochi fatti, motivazione questa che oggi scopro essere proprio tanto differente e più convincente di quella che hanno raccontato a me. Sì, perché a me alle elementari è stato detto che il far di conto sarebbe servito per il futuro passaggio alle medie e alle medie sarebbe servito per andare al liceo e così via. Nessuno però mi ha mai parlato di come quegli strumenti potessero essermi utili nel mio infantile e ludico presente di bambina.

E invece noi, proprio sotto un ombrellone, in occasione di uno degli ultimi bagni di stagione, abbiamo capito che per essere dei campioni al gioco della scopa o briscola è fondamentale saper contare, quindi a qualcosa servirà pure sta matematica!

E pensare che uno dei vari tentativi escogitati per fare apprezzare questo mondo di calcoli e formule, è stato quello di visitare la mostra di Andrea Galvani intitolata “La sottigliezza delle cose elevate”, fino al 25 Ottobre al Padiglione 9b del Mattatoio di Roma.

Il significato della performance è decisamente elevato, ma comunque emozionante.

In questo strano ambiente, le bianche formule scritte sui muri, diventano un linguaggio, quasi un dialogo, che prende vita grazie agli studiosi, che vestiti anch’essi di bianco, le generano e risolvono seduta stante. È la partecipazione empatica a un flusso, il famoso flow, di cui si percepisce tangibilmente la portata, come di un fiume in piena.

A me è sembrato di essere dentro la testa di Einstein, affascinante!! Certo, tranne alcune, non ho riconosciuto o compreso tutte le luminose formule fluttuanti o quelle candide dipinte sui muri, eppure mi sono emozionata nell’apprezzare la bellezza di questo linguaggio trasformato in arte.

E avanti a quei muri una piccola magia è avvenuta: ho provato curiosità. Avrei infatti pagato per comprendere quegli schemi, i teoremi e le formule, e ho anche sentito il pizzico del rimpianto per il tempo trascorso in un liceo dove quelle formule, in teoria, avrei dovuto impararle.

Questa pulsione l’ho confidata ai ragazzi, ai quali ho anche auspicato di non fermarsi avanti a ciò che ci sembra difficile perché qualcuno ci porta ad odiarlo, convincendoci che non è per noi. 

Forse i miei ragazzi non arriveranno neppure a sfiorare il senso di quelle formule, ma non mi importa!

L’essenziale è che abbiano sempre una mente aperta e sensibile che continui a perdersi in quel “flusso” travolgente e risolutivo, che li conduca a credere in sé stessi sempre, anche avanti al teorema più ingarbugliato e complicato che la vita possa proporre. 

La morale di questa storia la invio come un messaggio in bottiglia lasciato nel mare, con la speranza che qualcuno sia lì a riceverlo.

Questo è il pensiero che consegnerei alle onde: Se hai a che fare con i bambini, insegna loro l’amore di cogliere gli strumenti utili alla loro vita, ma solo dopo aver reso la tua un divertente gioco da provare e proseguire.

Mamma aquilone

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