
Ho iniziato il mio diario affidandogli una serie di domande con la speranza di far sgattaiolare fuori sensazioni e emozioni utili ad ottenere qualcosa che abbia le sembianze di un responso.
Ebbene, una delle domande era – quando si diventa genitori? – e per rispondermi ho pensato a quello che è successo a me.
Mi sono rivista nel cortile della mia scuola elementare, bimbetta con occhiali, apparecchio per i denti e scarpe correttive (mamma mia!) – sono proprio tutta da rifare! – pensavo.
Ero lì, diligentemente inquadrata con il mio grembiulino bianco e fiocchetto blu, che dovevo imparare la vita in quell’edificio che mi pareva enorme, un po’ troppo grande per i miei gusti. Ebbene, ricordo di come tornata a casa, quell’armatura candida spariva e io, finalmente, potevo essere libera di vestire i panni di mammina premurosa per le mie bambole, che erano lì ad aspettarmi, ferme e senza pretese.
Si insomma io credo di essere diventata mamma per la prima volta con il mio “Ciccio Bello” e devo dire che è stato il periodo più spensierato della mia genitorialità! In fondo era facile: cambiavo pannolini, preparavo pappe, riuscivo a consolare il pupo; tra noi c’era una bella intesa, infatti faceva tutto quello che volevo ed era capace di aspettarmi giorni, senza crisi di gelosia se mi distraevo con altri svaghi.
Insomma, tra i miei giochi trovavo il mondo perfetto. Peccato che tra l’universo colorato e perennemente sorridente della Barbie; tra le mille pappe trasparenti dei miei bambolotti, e la vita da bimbetta col lunare grembiulino, l’abisso era enorme.

Noi bimbi “umani” dovevamo imparare tutto e poi da correggere in noi c’era molto; la trasformazione per diplomarci a replicanti era lunga. Dunque, era evidente che la perfezione risiedeva nella plastica di quel bel bambolotto, paffutello, forte perché non emotivo (come me) e fermo, completamente abbandonato alla mia volontà; lui si che era un replicante perfetto e grazie a lui, anche io diventavo una mamma perfetta.
Ecco, ora immaginatevi quale impatto possono aver avuto le mie convinzioni di super mamma, quando, finito tutto il corso di studi e fatto tutto come doveva essere fatto, ho avuto tra le braccia il mio primo figlio, in carne ed ossa.
Sos! Houston, abbiamo un problema! Qui la faccenda si fa seria! Questo agglomerato di tenerezza e morbidezza sarà pure Ciccio, ma il bello nell’incessante pianto, nella cacche appiccicose, nei rigurgiti formaggiosi e nelle pretese perenni, dov’è?
Quindi la prima riformulazione di concetto di maternità credo sia avvenuta proprio allora, quando fra le braccia avevo un essere vivente, che si muoveva e mi cercava con la forza dirompente di un’esistenza altra da me, che di me si nutriva e attraverso i miei occhi scopriva il mondo. Che diadica responsabilità! Questo esserino poi non era mica tanto replicante…ho compreso subito che sarebbe stata dura farmi capire da lui, sebbene molti mi dicevano – ma tanto a quella età non capiscono -. Sarà, ma io un pizzico di fastidio a sentire questi discorsi lo provavo. Mi dicevo – vuoi vedere che sono io che devo capire lui? – Ma interrogarsi non apparteneva al mondo replicante, che fare quindi?
Perciò, ecco la mia prima lezione di vita (che neppure l’università mi aveva dato fino ad allora): la maternità non è un gioco!
Direi che quella è stata anche la prima volta che il valore della parola “vita” ha preso una piega del tutto inaspettata; vedevo, odoravo, ascoltavo, accarezzavo e assaporavo l’essenza vitale di un individuo che era un pezzo di me, ma comunque diverso da me. Come fare pace con questa faccenda?
Purtroppo però, neppure l’energia scalpitante di mio figlio è servita, a quei tempi, a distogliermi da un percorso caratterizzato da quel grembiulino bianco, che con il tempo è diventato come una seconda pelle; una etichetta di garanzia e di provenienza, attestante che tutta la programmazione era compiuta egregiamente.

Insomma, ero una superdonna, eccellente replicante dei sistemi sociali, sapevo le tabelline benissimo (fino a quella del 5 poi…ma vabbè), ero laureata, madre, moglie lavoratrice, tutto secondo i piani, con la propensione alla perfezione e al controllo. Ora potevo iniziare il lavoro di “madre catena di montaggio” e programmare al meglio la mia prole.
Fortunatamente, a salvarmi da questo delirio di onnipotenza, c’era il mio cucciolo che da sempre ha avuto l’abilità di scombinare i piani. Ad ogni mia intenzione di fare un passo, arrivava lui con una malattia o una incomprensibile richiesta, nascosta tra i decibel di un pianto inconsolabile, senza orari, senza una minima premura per la sottoscritta.
Intanto a me capitava di essere sempre più in affanno, perché tutta quella fastidiosa perfezione che dovevo dimostrare al mio prossimo, si allontanava ogni volta che il pargolo faceva qualcosa che ai miei occhi fosse deplorevole per l’umanità. Mi faccio un po’ tenerezza, guardandomi ora, col senno del poi, che cerco di incapsulare quella forza vitale, nelle vacue regole sociali, noiosamente declinate con la mitica nenia del “non fare”: non mordere, non piangere, non spingere, non correre, non fare i capricci, non desiderare ciò che non posso darti, cavolo, non ammalarti ora! non contraddirmi, non farmi fare brutta figura…e potrei continuare per molto, se non fosse che mi viene la nausea di me stessa. Chissà se riuscirò mai a perdonarmi per questa inettitudine; forse, se come kit post parto, invece delle creme antismagliature, mi avessero donato un libricino di aiuto alla genitorialità, tante cose le avrei capite prima. Attenzione, io quel frugoletto l’ho sempre amato più della mia stessa vita, cosa tra l’altro abbastanza facile, perché di essa io non avevo il minimo sentore; ero un variopinto cavalluccio, uno dei tanti, di un bel carosello girante, con la presunzione di essere un puro sangue.
L’apice credo di averlo toccato durante la seconda gravidanza, quando ormai credevo di padroneggiare sia la mia vita che quella degli altri, con la stessa spavalderia con cui maneggiavo quel mio “Ciccio Bello”, da piccola.
Ero piena di me e delle mie convinzioni; ero l’unità di misura di tutto il mondo e sullo sfondo un’idea di figli, che dovevano stare lì ed essere posizionati come bambole sul letto.
Per la seconda volta a scuotermi è una vita, troppo fragile, però, per il mondo che avevo disegnato e allo stesso tempo, tanto forte da distruggermi.
Sì, quello è il momento in cui ho sentito il frastuono dell’andare in frantumi, quando a posto del battito c’ha raggiunti un innaturale silenzio. Che sberla ragazzi! Nulla, ma proprio nulla è andato secondo i piani.
La metamorfosi della mia maternità è avvenuta proprio in occasione del rifiuto di quella vita ad accogliermi come madre. Insomma, ho capito di essere viva, incastrata in tutta la mia mortale umanità, fatta di carne, ossa ed emozioni, quando mi sono sentita morire, quando l’aria che entrava nei polmoni era tagliente come lame affilate. La sensazione più struggente è stata quella di scoprirmi vuota…ero la stampella di un simbolico grembiulino, che recitava in una delle tante repliche dell’esistenza, punto.
È in quel momento che ho percepito e visto la caverna che avevo attorno e sullo sfondo solo ombre proiettate, di reale c’era solo il mio dolore.

Credo di aver attraversato il deserto delle ceneri di me stessa, prima di uscire dal tunnel del lutto e ci ho messo un po’ a capire che anche quello strazio aveva una sfumatura provvidenziale: quella breve scintilla vitale era venuta per bussare alle porte del mio animo per destarmi, con un gesto di immenso amore, un po’ come il bacio del principe azzurro. Quella breve luce era comunque riuscita a farmi percepire le pareti della grotta in cui ero prigioniera.
Anzi, quella scintilla mi ha proprio sparaflashato, e ciò è stato utile per annientarmi e darmi il tempo di ricostruirmi e diventare la mamma che i miei figli avrebbero voluto, iniziando a trovare la strada per uscire da quell’antro.
Ma la cosa più importante è stata che lo spegnersi di quel battito è servito a creare attorno a me un silenzio tale che mi ha permesso di ascoltare il meraviglioso ritmo del battito di quel figlio che avevo e che non conoscevo per niente, tanto ero stata colta dalla smania di trasformarlo nella mia ombra.
Fortunatamente, quel bimbetto è stato infinitamente più forte di me e con la sua vitalità mi ha attratto a sé e mi ha costretto a trovare la forza per ricominciare, avvertendomi che l’unico modo che avevo per vederlo era vedermi, per ascoltarlo era ascoltarmi per viverlo era vivermi.
A completare l’opera di salvataggio e rinascita è poi arrivato un terzo battito, pulsante, melodico ed entusiasmante, che si è trasformato nella esuberante piccolina di casa.
Ora è più chiaro che a me è capitato di generare vita ma di capirne l’essenza solo qualche tempo dopo, quando ho compreso che dovevo ascoltare e non essere ascoltata, che dovevo imparare e non insegnare, che dovevo accompagnare e non condurre, che dovevo essere distrutta per ricompormi per e con i miei figli.
A quel punto ho lasciato tutto e ho ricominciato a studiare. Come prima cosa dovevo imparare a comunicare, quindi ho approfondito la materia della comunicazione e ascolto https://www.unicomunicazione.it/.



La strada quindi si è srotolata come un tappeto rosso avanti a me e sono arrivati i seminari con Emily Mignanelli https://hundredsofbuddhas.com/ ed Helga Dentale http://www.teatroingioco.it/sito/index.php, i primi di una lunga serie. Ulteriore tassello, posizionato in questo mosaico, è stato agganciato grazie al documentario “Figli della libertà” https://www.facebook.com/figliliberta/, un vero crash col mondo replicante!
Vitale è stata anche la scoperta del mondo degli albi illustrati: un universo per entrare nel pianeta fanciullesco dei miei bambini, con grazia e rispetto: “Pezzettino” di Lionni, “Quanto pesa un bugia, Tea” di Serelli, solo per citarne alcuni. Abbiamo un albo per ogni tappa importante: ciuccio, paura, rabbia, buio, anche cacca, sì abbiamo pure quello!



Questi, quindi, i primi passi che mi hanno condotto fino al mio “qui ed ora”, fuori dalla caverna.
Ecco qui, diario, ti ho confidato la mia più importante metamorfosi. La morale? Cambiare si può, si deve.
E ora rispondo. Sai quando sono diventata mamma io, completamente?
Quando il fragore del battito di un cuoricino è diventato un leggero frusciare di ali, che mi ha spostata come un soffio di vento e mi ha fatta cadere, permettendomi di capire che nel mio dolore io esistevo.

Da quel momento ho buttato la zavorra, mi sono spogliata di quel grembiule e ho iniziato a volare coi miei bambini, sintonizzandomi sulle frequenze del loro cuore e alleggerendomi come una piuma, per non essere la loro caverna.
Da “mamma catena di montaggio” a “mamma aquilone”: la metamorfosi era iniziata; avevamo un mondo da scoprire!

Il viaggio per uscire dalla caverna era iniziato!
A te che sei arrivato fin qui, confesso un segreto. Sai cosa spera il mio cuore? Che ogni essere umano possa alleggerirsi e brillare come particella di luce per sè e per gli altri, diventando raggio di sole, evitando così di svuotarsi, per poi accontentarsi di essere un’ombra scagliata selle pareti dei muri dell’indifferenza.
Mary
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